Come è noto il primo comma dell’art. 9 del vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) prevede che “Se sopravvengono circostanze straordinarie e imprevedibili, estranee alla normale alea, all’ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato e tali da alterare in maniera rilevante l’equilibrio originario del contratto, la parte svantaggiata, che non abbia volontariamente assunto il relativo rischio, ha diritto alla rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali. Gli oneri per la rinegoziazione sono riconosciuti all’esecutore a valere sulle somme a disposizione indicate nel quadro economico dell’intervento, alle voci imprevisti e accantonamenti e, se necessario, anche utilizzando le economie da ribasso d’asta. Il comma 2 precisa che “Nell’ambito delle risorse individuate al comma 1, la rinegoziazione si limita al ripristino dell’originario equilibrio del contratto oggetto dell’affidamento, quale risultante dal bando e dal provvedimento di aggiudicazione, senza alterarne la sostanza economica.” Mentre il comma 5 conclude chiarendo che “in applicazione del principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale si applicano le disposizioni di cui agli articoli 60 e 120”.

E’ dunque evidente che la revisione dei prezzi (art.60) e le varianti in corso di esecuzione del contratto (art. 120) rappresentano strumenti attraverso i quali si realizza il principio della tendenziale conservazione e, se del caso, ripristino, di un equilibrio tra le prestazioni che sia venuto meno durante l’esecuzione del contratto. Ma è altrettanto evidente che tali strumenti non esauriscono lo spazio logico ed applicativo del diritto delle parti al riequilibrio del rapporto tra le prestazioni del contratto.

In tale contesto appare particolarmente significativo il comma 2 dell’art. 2 del nuovo (perché introdotto dall’art. 86, comma 1, del d.lgs.  31 dicembre 2024, n. 209) allegato II.2-bis al codice dei contratti pubblici, secondo cui “Quando l’applicazione dell’articolo 60 del codice non garantisce il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale e non è possibile garantire il medesimo principio mediante rinegoziazione secondo buona fede, è sempre fatta salva, ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b), la possibilità per la stazione appaltante o l’appaltatore di invocare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto. In tutti i casi di risoluzione del contratto ai sensi del presente comma, si applica l’articolo 122, comma 5, del codice”.

Sembra dunque evidente che tale norma istituisce un rapporto gerarchico tra i diversi meccanismi di riequilibrio del rapporto tra le prestazioni oggetto di appalto, individuando nella revisione prezzi (art. 60) lo strumento di elezione per il mantenimento dell’equilibrio contrattuale, nella rinegoziazione secondo buona fede (art. 9) – che si può avvalere anche dello strumento della variante in corso d’opera (art. 120) – lo strumento di “secondo livello” e, come extrema ratio, il rimedio demolitorio, ossia la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, secondo lo schema generale di diritto comune, espresso dall’art. 1467 c.c.

Rinviando ad un prossimo appunto specifici approfondimenti e riflessioni sulla “nuova” revisione prezzi – soprattutto alla luce delle indicazioni contenute nel citato allegato II.2 bis – ci si soffermerà qui sul rimedio di secondo livello della rinegoziazione, disciplinato dal combinato disposto degli artt. 9 e 120 del codice dei contratti pubblici.

A tale riguardo si ricorda che la relazione illustrativa del Consiglio di Stato al vigente Codice dei contratti pubblici sottolineava che con l’art. 9 è stata codificata una disciplina generale da applicare per la gestione delle sopravvenienze straordinarie e imprevedibili, tali da determinare una sostanziale alternazione nell’equilibrio contrattuale, “con effetti resi di recente drammaticamente evidenti dalla congiuntura economica e sociale segnata dalla pandemia e dal conflitto in Ucraina”. Tale fenomeno, prosegue il Consiglio di Stato, è identificato nella prassi internazionale con il termine hardiship (difficoltà- disagio), è riconosciuto da diversi sistemi giuridici (frustration of purpose; Wegfall der Geschäftsgrundlage; imprévision, eccessiva onerosità sopravvenuta), e rappresenta un “rimedio manutentivo del contratto”, maggiormente conforme all’interesse dei contraenti – e dell’amministrazione in particolare – in considerazione dell’inadeguatezza della tutela meramente demolitoria apprestata dall’art. 1467 c.c.

La disposizione specifica, quindi, quali sono le sopravvenienze da cui sorge il diritto alla rinegoziazione, precisando che, oltre che sopravvenute e imprevedibili, devono essere estranee anche al normale ciclo economico, integrando uno shock esogeno eccezionale e imprevedibile. È necessario, poi, che tali rischi non siano stati volontariamente assunti dalla parte, sebbene non sia necessaria una assunzione espressa. Solo ove risultino integrati tutti i requisiti indicati nel primo comma della disposizione viene riconosciuto alla parte svantaggiata – sulla quale grava, conformemente alle regole generali, l’onere di fornire i relativi elementi a comprova – il diritto alla rinegoziazione.

In tale contesto si innesta l’art. 120, comma 8, del codice vigente, a mente del quale “Il contratto è sempre modificabile ai sensi dell’articolo 9 e nel rispetto delle clausole di rinegoziazione contenute nel contratto. Nel caso in cui queste non siano previste, la richiesta di rinegoziazione va avanzata senza ritardo e non giustifica, di per sé, la sospensione dell’esecuzione del contratto. Il RUP provvede a formulare la proposta di un nuovo accordo entro un termine non superiore a tre mesi. Nel caso in cui non si pervenga al nuovo accordo entro un termine ragionevole, la parte svantaggiata può agire in giudizio per ottenere l’adeguamento del contratto all’equilibrio originario, salva la responsabilità per la violazione dell’obbligo di rinegoziazione.”.

Dal combinato disposto di tali norme emerge quindi che:

  1. la rinegoziazione trova spazio se la clausola revisionale non è di per sé idonea e sufficiente per riportare in equilibrio un contratto squilibrato da circostanze sopravvenute;
  2. presuppone che il rischio delle circostanze sopravvenute non sia stato esplicitamente o implicitamente (in base ad una interpretazione sistematica e funzionale del contratto) assunto dalla parte svantaggiata;
  3. presuppone una esplicita richiesta dell’appaltatore ove, come spesso accade, la parte svantaggiata sia l’appaltatore stesso;
  4. non giustifica la sospensione dell’esecuzione (il che significa che lo squilibrio sopravvenuto non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 1460 c.c.);
  5. avvia un subprocedimento che deve esitare in una proposta di accordo del RUP entro tre mesi dalla richiesta;
  6. in difetto di accordo, la parte svantaggiata può agire in giudizio per ottenere dal Giudice il riequilibrio del contratto.

Si tratta di un quadro molto complesso, rispetto al quale emergono diverse criticità e dubbi.

In primo luogo la perimetrazione dei rischi e la loro allocazione sono “nelle mani” dell’amministrazione aggiudicatrice, atteso che, come noto, è questa che predispone unilateralmente il contratto e lo sottopone al confronto del mercato. Occorre quindi individuare presupposti e limiti di tale perimetrazione, potendosi senz’altro affermare che sarebbe senz’altro nulla una clausola che escludesse il diritto alla rinegoziazione o lo condizionasse all’avveramento di circostanze impossibili o estremamente improbabili, ponendo a carico dell’appaltatore sostanzialmente tutti i rischi ragionevolmente realizzabili.

In secondo luogo non è chiaro se la “richiesta” dell’appaltatore debba o, in subordine, possa – se non altro per espressa previsione contrattuale – essere assoggettata ai termini decadenziali e alle modalità della riserva, atteso che, come noto, l’istituto della riserva nasce e persiste nell’ordinamento dei contratti pubblici per assicurare alla stazione appaltante, durante l’intera fase di esecuzione del contratto, il continuo ed efficace controllo della spesa pubblica. Sembrerebbe quindi coerente ricondurre nell’ambito della disciplina della riserva – e segnatamente, dell’effetto decadenziale connesso alla mancata o tempestiva iscrizione nei documenti contabili – anche le richieste di rinegoziazione, soprattutto in ragione del fatto che, a termini dell’art. 7 dell’allegato II.14 al codice “Non costituiscono riserve: a) le contestazioni e le pretese economiche che siano estranee all’oggetto dell’appalto o al contenuto del registro di contabilità; b) le richieste di rimborso delle imposte corrisposte in esecuzione del contratto di appalto; c) il pagamento degli interessi moratori per ritardo nei pagamenti; d) le contestazioni circa la validità del contratto; e) le domande di risarcimento motivate da comportamenti della stazione appaltante o da circostanza a quest’ultima riferibili; f) il ritardo nell’esecuzione del collaudo motivato da comportamento colposo della stazione appaltante”.

Quindi, poiché la richiesta di rinegoziazione non rientra in alcuna delle fattispecie di esenzione dal regime della riserva, potrebbe ritenersi, a contrario, che chi avanzi tale richiesta deve appunto utilizzare lo strumento tipico della riserva. Di contro, resta il dubbio che, ove il Legislatore avesse effettivamente inteso richiamare il regime delle riserve non si sarebbe espresso nei termini invero generici effettivamente utilizzati (“la richiesta di rinegoziazione va avanzata senza ritardo”).

In tale contesto, oggettivamente poco chiaro, non resta che affidare alla specifica regolamentazione convenzionale la definizione non solo del perimetro dei rischi contrattuali e della loro allocazione, ma anche delle modalità e dei termini attraverso i quali formulare la richiesta di rinegoziazione.

In terzo luogo, alla richiesta di rinegoziazione fa seguito, nello schema dell’art. 120, comma 8, direttamente una proposta di accordo da parte del RUP, che, a differenza di quanto accade nel modello dell’accordo bonario definito dall’art. 210, non prevede alcun intervento del direttore dei lavori, nonostante lo stesso potrebbe fornire un utile supporto laddove la rinegoziazione implichi questioni tecnico-esecutive e non solo economico-finanziarie. Né, sempre in tale prospettiva, andrebbe esclusa la possibilità che le richieste di rinegoziazione siano affidate al Collegio Consultivo Tecnico di cui agli artt. 215-219 del d.lgs. n. 36/2023, non solo perché, sopra soglia, “è obbligatoria l’acquisizione del parere o, su concorde richiesta delle parti, di una determinazione del collegio” …in relazione a “iscrizione di riserve, di proposte di variante e in relazione ad ogni altra disputa tecnica o controversia che insorga durante l’esecuzione di un contratto di lavori” (art. 216, comma 1, d.lgs. n. 36/2023), ma soprattutto, per il carattere imparziale di tale organismo, al quale le parti possono concordemente affidare la risoluzione della controversie mediante pronunciamento vincolante (cfr. art. 216 e 217 d.lgs. n. 36/2023).

In quarto ed ultimo luogo, l’ultima parte del comma 8 dell’art. 120 del d.lgs. n. 36/2023, ove si prevede che “nel caso in cui non si pervenga al nuovo accordo entro un termine ragionevole, la parte svantaggiata può agire in giudizio per ottenere l’adeguamento del contratto all’equilibrio originario, salva la responsabilità per la violazione dell’obbligo di rinegoziazione” apre una enorme serie di questioni interpretative ed applicative, quali, a tacer d’altre, l’individuazione della giurisdizione sulla suddetta azione di adeguamento (giurisdizione amministrativa esclusiva se si riconduce la rinegoziazione all’istituto della revisione prezzi; giurisdizione ordinaria in caso contrario), il rapporto di tali controversie con l’arbitrato, rituale ed irrituale, al quale fa rinvio l’art. 216 del d.lgs. n. 36/2023 (dal momento che se si ritenesse sussistere la giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo la devoluzione della relativa controversia al Collegio Consultivo Tecnico incontrerebbe qualche problema nella prospettiva dell’art. 12 del CPA) nonché, da ultimo, il rapporto di tale azione con “la possibilità per la stazione appaltante o l’appaltatore di invocare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto”, prevista dal già citato art. 2, comma 2, dell’allegato II.2 bis (poiché non è chiaro cosa succeda nel caso un cui una parte agisca in giudizio per il riequilibrio e l’altra invochi la risoluzione del rapporto, dichiarando di non avere più interesse alla sua prosecuzione).

Conclusivamente, se molte delle smagliature normative sopra evidenziate potranno essere risolte mediante una accorta disciplina convenzionale, resta la consapevolezza che l’attribuzione al Giudice del potere di sostituirsi alle parti nella individuazione di un nuovo equilibrio contrattuale, costringendole al rispetto di un accordo che per una di esse, o magari per entrambe, non è più conveniente, genererà contenziosi e dibattiti lunghi e complessi.